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Rifrazioni di critica
Pensieri su nomi e opere nell’arte di Antonella De Nisco
di Jacopo Rasmi


Come ciascuno lavora sulla lingua, così lavora sulla materia. Nel caso d’artista: come questo crea, così giustifica la creazione. Essendo il titolo la prima e più necessaria delle parole che può spendere sulla propria opera, dai titoli si recupera un’apprezzabile esegesi dell’artista e della sua opera.
Prescindendo dal merito del giudizio etico-ontologico che vi istituisce, potremmo iniziare dalla categorizzazione del linguaggio verbale proposta da Benjamin attraverso i parametri di intensità/espansività. L’uso linguistico-comunicativo che si espleta per espansione è quello più pragmatico e superficiale, quello votato nella sua strumentalità all’analisi. Che procede verso il volume, tracimando ed occupando con tendenze coercitive. Mentre l’altro, quello intensivo, corrisponde alla lingua magica che nasce dall’indicibile e lo difende recandone i segni: si tratta di una parola ‘sacra’ che opera per concentrazione e profondità, addensandosi nell’analogico. Questa mantiene, im-mediata, l’essenza del linguaggio e ne conserva la purezza, la seconda ne rappresenta una dissipazione comprensibile per bisogni quotidiani, minacciosa e parassitaria se sistematizzata nella cultura. La prima apre ed ispira l’ascoltatore, la seconda tende a occuparlo e colonizzarlo.
L’intensità sostiene e spalanca la lingua con cui Antonella nomina la propria opera. La sua parola si presenta chiaramente per quei caratteri di densità e immediatezza che identificano la comunicazione intensiva, essa si immerge nel mistico unsagbar con magica ispirazione. Reca tutta la sobrietà, la concentrazione e la potenza che descrivono la parola culturale, rifiutando l’estensione, l’utilitarietà, la coercizione dell’altra. Diversi s’individuano i processi che Antonella opera nella lingua per conservarne originarietà e purezza: in particolare sottolineerei l’ampia tendenza alla composizione - estranea alla norma dell’italiano - di titoli come tesserecieli o mormoramore e quella al gioco semantico per trasformazione (es. castellaRAMO, con gioco grafico di carattere da Castellarano). Entrambi sono processi analogico-metaforici all’interno della singola parola che innovano, accostano, destabilizzano e sovrappongono in modo da creare un fitto sistema aperto di immagini, possibilità e rifrazioni. Processi semplici ed intuitivi di creazione comunicativa, ad alto calibro iconografico, che prescindono dalla corposa mediazione della morfologia e dalla complicazione della sintassi. Si tratta di una creazione per intuizione ed emozione capace di garantire, insieme, essenzialità e ricchezza. Parole in (vera) libertà che alludono, fraintendono ed esplorano. Nella loro spontaneità e ludicità esprimono un approccio infantile e immaginifico al linguaggio, l’unico stato garante di ingenuità euristica e libero dalla strumentalità. L’aroma d’infanzia (dello spirito) si sprigiona forte da quel repertorio lessicale marcatamente fiabesco - laico (castello, tana, sella…) e biblico (fionda..) - che, con il suo portato di familiarità ed evocatività sussurrata, ricorre di frequente. In questo destreggiarsi di vocaboli si muove, dunque, una fanciullesca leggerezza per la quale nessun vocabolario è fissato irreversibilmente e tutto è manipolabile secondo ispirazione e diletto: non esiste confine inviolabile, integrità definitiva al cospetto di questa logica comunicativa. Ma emerge anche un’abilità umoristica fondamentale, che mette ogni cosa in stato d’allegoria, profana il sistema di significati fissi vivificando senza mai violare (vedi dissacrARTE). L'attività ludica di questa titolazione vive di un dizionario immenso e vergine: dai locativi (cameRE con vista) e escursioni auliche (conviviali) e ancora reminescenze di giochi lontani (muropassaparole). Si compone così la parole singola-eppure-molteplice, ricca d’echi emotivi, e-vocativa a ogni corrispondenza, che si staglia nella titolazione.
La parola-titolo, in tal modo, s’addensa e si intensifica presentandosi libera e carica all’agnizione del lettore-fruitore dell’opera. Non contiene una spiegazione pre-definita e limitante, non pre-tende e non s’espande con ingombro per l’immaginazione e l’impressione. Anzi predispone ed incoraggia all’accoglienza della composizione artistica, preservando lo spazio sacro di concentrazione di cui vive la cultura. L’istanza comunicativa in Antonella si esprime dunque in un verbum-maturamente-culturale. Svolgere un sommario della sua produzione è come rincorrere farfalle leggere e multicolori: te li vedi sfilare davanti, i nomi, come una processione di cavalieri bizzarri ed affascinanti, il rapido acquabaleno con il tenero ricciopasticcio, poi la sequenza delle tane con tanangolo, tanafresca e tana di luce, quindi l’imponente decoramondo e il giocondo passo e schiudo e via, di seguito, tutti gli altri…
Tale titolo, tale opera, si diceva in esordio. Ebbene quanto affermato finora per il linguaggio verbale, tanto vale puntualmente per il corrispettivo artistico. L’arte, in Antonella, risponde ai medesimi principi di libera e fantasiosa fruizione del reale e ricerca di collaborazione-coinvolgimento dell’altro. Troviamo nella sua manipolazione della materia, in ogni intreccio di frasche o intessitura di canapa, quella stessa intuizione di semplicità carica di significatività e connettività, quello stesso piacere del gioco. Ogni texture improvvisata dietro al paesaggio si origina da una sola, ricorrente base concettuale-emotiva: quella sacra accoglienza, di un’umana emozione o bisogno. L’intervento di Antonella si modula sulla percezione d’un esigenza di quelle più sottili, sfuggenti e spirituali, tanto autentiche quanto ignorate, tra selle e riposatoi, tane e fionde... Soccorre chi chiede riparo, chi manca d’orizzonte, chi ha perduto il gioco. E’ tanto provvidenziale, quanto inattuale: provvede a quelle esperienze semplici e fondamentali che approfondiscono in qualità vite sempre più quantitative. Restituisce scambio, materia e socialità con questa sua vocazione alla dimensione artigianale-progettuale, che è con-lavorare e co-esperire. Si colloca in puro essere, meglio: puro esserci, in quanto arte effimera e molteplice che vive delle fruizioni emotive e poi si disperde, rifuggendo ogni avere. Irrevocabile e irriproducibile.
Nel complesso di quest’analisi emerge, a mio parere, il valore e la singolarità dell’esperienza d’arte concettuale in Antonella De Nisco rispetto al panorama del contemporaneo. Nella sua eterogeneità, infatti, la concettuale si presenta in genere molto più coercitiva, infeconda e riproduttiva delle dinamiche predominanti: con le sue complesse e oziose astrazioni, le sue pretese assolutistiche, le sue fruizioni elitarie essa tende più a imporsi sul fruitore, ad isolarlo, a indurlo ad una conquista di possesso (anche solo cognitivo) che ad accoglierlo. La referenza di mercato, la permanenza e riproducibilità come merce, il profilo iconoclasta gli sono intrinsecamente costitutivi. Una forte strumentalità declassa questo operare artistico, privo, nelle sue stringenti finalità, foss’anche solo (nel caso migliore) politico-critiche, della gratuità, intensità e sacralità d’una fu pala d’altare o astrazione acquerellata. L’artista concettuale spesso si prova, da un lato, in un esercizio di complessità e metafisica (ritorna l’espansività), dall’altro ricorre con costanza al brutto ed alla provocazione. Riuscendo a indebolire lo spettatore con l’incomprensione e il magniloquio e a ridondare quanto già colonizza l’immaginario sociale-mediatico (il polemico e il trash). A elettrizzare di più la persona già in perenne e logorante tensione, a confinare in ulteriori ozi virtuali la mente di per sè sospese nell'artificio.
Il medium artistico viene in questo modo riassorbito nelle dinamiche di dominio ed autoriproduzione della realtà già data, tradendo il suo eccezion-ale carisma salvifico. Diviene replica, sclerotica per lo più. Essendo invece esso una rappresentazione volontaria ed esterna, può interrompere l’inerzia del flusso proponendo un’alternativa: in questo modo la costruzione estetica dell’arte assume una veicolarità etica e pratica, una funzione coscienziale. Deve rifiutare la tentazione espansiva, alla complicità, deve assumere tutto il suo intensivo spessore culturale sostanziato di puro e sacro, chiamare alle possibilità non all’acquisizione e così via... A questa redenzione tende tutto quel bello semplice, caloroso e connettivo che riposa nel titolo e nell’opera di Antonella De Nisco.






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